Mia moglie e il bull adolescente




 La nostra palazzina era un po’ isolata, divisa da un grande cortile (forse una vecchia fabbrica), dalle ultime case della periferia. Un posto quieto, insomma, magari solo un po’ monotono per un adolescente ma a me andava bene. Ero un tipo introverso, mi piaceva leggere e mi trovavo meglio con gli adulti che coi ragazzi della mia età, che stavano sempre a scalciare un pallone.

Abitavamo al piano terra, poi c’era la casa di una vecchia che stava sempre dalle figlie e, sopra, la signora Elena, sposata ma senza figli. La signora Elena era abbastanza giovane ma, naturalmente, a me sembrava già anziana. Per non parlare del marito. Il signore aveva quindici anni più di lei e così era addirittura più “vecchio” di mio padre.

Vecchia o no, quando veniva a passare il pomeriggio giù, da mia madre che faceva la sarta, io non potevo fare a meno di cercare sempre la posizione più idonea per spiarle quegli stralci del suo corpo che traboccavano da qualche punto, dei camici attillati.

Lei era abbondante e prorompente, altezza media e coscioni dalla bella carne rosea. Di sopra, i seni molto grossi, erano pressati sempre da un reggipetto nero, le cui bretelle evidenti la accompagnavano in ogni sua “mise”.

Con in mano un libro o un giornaletto, mi mettevo comodo, spesso per terra su un cuscino e la spiavo per ore.

Mi piaceva molto guardarla d’inverno, perché sotto la veste, portava le calze… a volte nere, altre volte colore del bronzo. Se ero fortunato, in certi momenti, vedevo la fine della calza, le cosce chiarissime e la virgola arrapante delle mutande nere. Sempre, quando capitava questo tipo di evento, appena lei andava via, correvo nel bagno, per masturbarmi con una certa impellenza.

Un’estate, la signora Elena si fratturò il malleolo e, tra ingessatura e convalescenza, rimase bloccata per quasi tre mesi.

Qualche volta salii a trovarla con mia madre ma, purtroppo, il suo lavoro non le permetteva di lasciare casa troppo a lungo. Però la signora, cui ero simpatico, disse che se non mi seccava, potevo andarla a trovare il pomeriggio e magari aiutarla, se le fosse capitato di avere bisogno di qualcosa.

Accettai di buon grado e non me ne pentii: oltre a trovare un piacevole diversivo alla monotona estate di provincia, a casa di Elena ero trattato come un principe, mi faceva trovare sempre qualcosa di buono per merenda, potevo leggere ciò che volevo e guardare la TV a mio piacimento.

La cosa che però preferivo era aiutarla per poterle stare vicino. Faceva caldo e la poverina indossava sempre cosette molto leggere. Spesso, si apriva quei camici fiorati che portava e poi mi scherniva, dicendo che potevo essere suo nipote e che con me non provava soggezione. Invece io provavo un infinito mix di emozioni e la spiavo, sperando di non essere notato: lei, infatti, non mi ha mai sgridato.

Una volta che l’aiutai a raggiungere il bagno, appena entrò, Elena non chiuse la porta: – Abbi pazienza, Mario, ma mi gira tanto la testa, lascio la porta accostata… dovessi sentirmi male! –

Lasciò la porta spalancata ed io rimasi talmente sconvolto dalla facilità con cui fece scendere le mutande nere, mostrandomi il culo bianco, matronale, che non riuscii a fingere di non guardare. Lei mi vide e mi sorrise, mentre sentivo scrosciare deliziosamente la sua pipi.

La mia libertà di movimenti, a casa di Elena, aumentava sempre più, al punto che, quando il mio pisello, nei pantaloni leggeri, si gonfiava troppo, chiedevo di andare in bagno con una scusa e, con le immagini di lei seminuda ancora stampate in testa, mi facevo tantissime seghe, anche due o tre, nello stesso pomeriggio.

Un giorno mi chiese se potessi passarle sulle gambe una crema medicinale.

Aveva una camicetta, già sbottonata, sul reggiseno nero ed una gonna leggera, che si tolse davanti a me. Anche i suoi slip, molto succinti, erano neri e io sentivo mancarmi la terra sotto i piedi: potevo toccarla ma ero anche terrorizzato. Avevo paura che capisse che le mie carezze contenevano il mio infinito desiderio. Ero ancora un ragazzo, allora.

Spalmare quel prodotto scivoloso sulle cosce depilate, arrendevoli, era una specie di biglietto per il paradiso: vedevo che lei ne godeva, mentre teneva gli occhi socchiusi.

Mi fermò un attimo e chiese, innocentemente:

– Mario, siamo sicuri che la porta è chiusa? – e per sicurezza mi mandò a controllare.

Quando ritornai, si stava abbassando anche le mutande e, per la prima volta in vita mia, mi trovai a pochi centimetri dal suo cespuglio nero. Avevo già visto la figa, ma mai così da vicino.

– Non ti scandalizzare, lo so che tu sei un bravo ragazzo! Vedi, così puoi muovere bene le mani: mi farà bene! –

A furia di salire e di scivolare, le entrai dentro con le dita. Il calore umido sui polpastrelli mi fece girare la testa, non capivo più niente. Temetti che il mio cazzo esplodesse per quanto si gonfiava.

Istintivamente iniziai a frugare in quello spacco che non sembrava finire mai, tanto era arrendevole, succoso, dolce, caldo ed accogliente.

Il giorno dopo mi insegnò a succhiargliela, a leccargliela e di conseguenza, a farla godere.


2

Nei tre giorni successivi ci carezzammo reciprocamente senza parlare.

Lei mi permise di esplorare il suo corpo, quel corpo che avevo tanto sognato e desiderato. Non mi sembrava vero: ero quasi infantile nella ricerca della sua carne. Mi infilavo sotto gli slip, sotto i seni, la toccavo in tutte le posizioni; mi alzavo in piedi per palparla dall’alto oppure mi prostravo per terra, per infilarmi da sotto il tavolo cercando il profumo misterioso della sua intimità.

Quando proprio non ce la faceva più, dopo ore di carezze libidinose, mi tirava la testa con le mani e m’affogava nella sua fregna.

I peli trasudavano liquidi che io leccavo fino all’ultima gocciolina.

Poi venne il fine settimana e c’era suo marito; il lunedì lei andò al controllo medico ed il martedì nemmeno c’era. Contavo le ore, i minuti ed impazzivo. Non mi toccavo… speravo che Elena si decidesse a fare qualcosa di me. Ero sicuro che un giorno mi avrebbe permesso di farle vedere il mio cazzo… non mi toccavo!

Avevo troppa paura che non fosse durissimo al momento opportuno, avevo paura che s’ammosciasse per la vergogna.

Il mercoledì, finalmente, mi chiamò. Si comportava come se non fosse successo niente ed io mi sentivo morire, non sapendo come fare per rompere il ghiaccio.

Mi chiese di leggerle un articolo su un giornale che non avevo mai visto, si chiamava ABC. Prima non ci feci caso, i miei pensieri erano da tutt’altra parte, poi mi accorsi che c’erano storie eccitanti e foto di donne nude.

– Ti piace? – chiese con malizia e poi, la sua piccola mano chiara si infilò nei miei pantaloni e mi toccò il pene. Sentii che il plesso solare veniva come strizzato ed iniziai a balbettare.

Elena usò l’altra mano, per aprirmi la patta, e iniziò a mungermi verso il basso, lentamente ma con fermezza.

Era la prima volta… lei ripeté, roca: – Ti piace? –

Dopo Ferragosto ero diventato molto più padrone della situazione ed Elena mi lasciava fare volentieri le ricognizioni sul suo corpo, morbido e abbondante.

Spesso, anche per il caldo, si metteva nuda sul letto, mentre io abbassavo solo i pantaloni corti: se mi chiamava mia madre dovevo essere pronto.

Dalle foto che avevo visto e dalle chiacchiere con i compagni, sapevo bene che una donna poteva anche prendertelo in bocca se avesse voluto, sapevo anche che voleva dire “scopare”, ma non l’avevo mai fatto.

Imparai bene a venire con la sua sega ed era una cosa meravigliosa. Quasi ogni sera, prima di andar via, lei si metteva al mio fianco, spesso in piedi davanti ad un grande specchio, e mi faceva uscire tutto lo sperma di cui disponevo. Altre volte mi faceva spruzzare in cucina, dentro un tazza. Passata la voglia, scappavo via ed appena uscivo di casa, immediatamente vedevo tornare il marito.

Diventato più grande, ci pensai: quell’uomo sapeva ed aspettava che io avessi finito. Ho intuito dopo la loro libidine segreta; probabilmente la sborra nella tazza serviva a qualche strano gioco erotico tra loro.

Nonostante mio padre avesse sempre da borbottare, mia madre aveva trovato la sua pace e io ero contento: non rompevo e non rischiavo per le strade della periferia.

Dalla signora Elena ripassavo pure le materie e, per evitare qualsiasi cambiamento, mai come in quel periodo, ero diventato studioso,.

Finalmente, un sabato di settembre che i miei avevano da fare, Elena mi invitò a restare a casa sua. Purtroppo c’era anche suo marito: mi rassegnai a guardarla, senza poter fare nulla.

3

Ma le cose andarono molto diversamente…

Dopo pranzo e dopo sfaccendato, Elena venne a sedersi sul divano. Il signor Osvaldo, suo marito, guardava la TV, senza badare a noi ma, naturalmente, io ero imbarazzato ed incapace di qualsiasi azione; anzi, sudavo freddo, come se mi si potessero leggere in viso le mie “malefatte” ed i miei desideri.

Dopo un poco lui si alzò e fece il caffè. Con calma si avvicinò alla moglie che, obbediente, si lasciò stringere tra le braccia e anche baciare. Li guardavo affascinato deglutendo per la paura.

Eseguivano una specie di danza. I movimenti di Elena avevano un che di ipnotico, di fascinoso. Ruotava il bacino e poi scattava verso l’alto e poi ancora e ancora, mentre io la spiavo di spalle.

Lasciandomi veramente di stucco, Osvaldo, iniziò a spogliarla ed a toccarla nelle parti intime, come se io non ci fossi. Lei sorrideva leggermente e si guardava alle spalle, sembrava provocarmi. Nonostante la vergogna, il mio coso si fece duro, ma non dovetti preoccuparmi perché il marito le disse di abbassarmi i pantaloni, per costatare se sua moglie mi piacesse.

– Alzati – disse poi a me – non avere paura, Elena non ti ha mai succhiato l’uccello? –

Non sapevo cosa rispondere e non ne sarei stato capace. La baciò in bocca e le sussurrò all’orecchio parole d’intesa. Poi si staccò da lei che ormai era in mutandine e reggipetto, ed andò a sedersi al tavolo della cucina, come se il tutto non fosse affar suo. Elena, invece, tornò a sedersi sul divano e, facendomelo uscire dallo slip, mi prese il pene in bocca. Mi sembrò di affondarlo in una mare liquido e caldo. Quello era un pompino e lei lo stava facendo proprio a me.

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